Lo scorso anno in occasione della ricorrenza del
27 gennaio ho proposto ai ragazzi della mia classe II A di Mathi, dove
insegnavo Geografia per due ore a settimana, una riflessione sull’importanza della
memoria e, in particolare, sulla memoria dell’orrore. Siamo partiti dalla lettura di un articolo
scritto dal giornalista Fabrizio Dagosei per il quotidiano Corriere della Sera, pubblicato il 27 gennaio del 2013, in
occasione della ricorrenza della Giornata della Memoria. L’articolo-reportage
riporta il racconto dell’orrore svelatosi agli occhi dei primi soldati
dell’Armata Rossa giunti al cancello di filo spinato con su scritto Arbeit
Macht Frei (“Il lavoro rende liberi”) poco dopo mezzogiorno del 27 gennaio
1945. La lettura dell’articolo, al quale vi rimando
attraverso questo link (Quando isovietici liberarono Auschwitz), è stata occasione per riflettere
insieme ai ragazzi sull’istituzione della Giornata della Memoria, come segue.
La Giornata della Memoria è stata
istituita nel 2005 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (l’ONU- Organizzazione
delle Nazioni Unite- nasce, infatti,
dopo la seconda guerra mondiale, con la finalità principale di garantire la
pace nel mondo). La data scelta, il 27 gennaio,
è quella dell’ingresso delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa nel campo di
concentramento e sterminio di Auschwitz.
Tra le
parole dell’articolo-reportage che abbiamo letto, una è quella che più di tutte
le riassume: orrore. Orrore è il sentimento che hanno
provato i primi soldati dell’Armata Rossa entrati ad Auschwitz; orrore di fronte a “scheletri viventi”,
circa 7000, uomini, donne e un centinaio di bambini, muti, che compiono l’unico
gesto che nei lunghi mesi, se non anni di prigionia, è stato loro insegnato:
scoprire il braccio e mostrare il numero che vi è stato tatuato sopra. Quei
bambini non hanno un nome ad Auschwitz, così come non ce l’hanno gli altri
sopravissuti, così come l’hanno perso tutti coloro che non ce l’hanno fatta e
che hanno perso oltre al nome anche la vita. Ad Auschwitz non si veniva chiamati per nome, ma attraverso le cifre
che ciascuno, all’arrivo al campo, si vedeva tatuare sul proprio braccio.
Quel numero non è mai andato via ed i pochi superstiti ancora oggi in vita, testimoni
viventi dell’inferno chiamato Auschwitz, ce l’hanno ancora addosso.
Orrore è il sentimento che si prova ancora oggi, che si deve ancora oggi
provare leggendo il racconto di tale atrocità, leggendo le tante e tante opere
scritte sulla Shoah (“catastrofe” in ebraico) che colpì in particolare gli
ebrei durante la seconda guerra mondiale; orrore
di fronte alle scene che furono per prime girate dal cameraman dell’Armata
Rossa; orrore di fronte alle scene
dei tanti film che sono stati girati per raccontarlo; orrore di fronte ai racconti dei testimoni ancora in vita.
E a cosa serve la memoria di tanto orrore? A non dimenticare, cari ragazzi, quanto
male, quanto dolore, quanta sofferenza l’uomo può provocare ai propri simili.
Questo pensiero, il pensiero del male, della crudeltà umana deve servire a
rafforzare la nostra coscienza civile, sia individuale che collettiva. Una
coscienza, infatti, è vigile se ha buona memoria del passato, di ciò che il
passato le ha trasmesso attraverso i racconti, le parole della Storia. E il
racconto, la parola è l’unica, la più efficace arma contro ciascuna forma di
violenza, sia presente che passata. È il dialogo che ci permette di superare le
divergenze. E se i popoli, le culture, le religioni diverse tra loro, nel
passato come nel presente, avessero affidato al dialogo le loro diversità,
avessero permesso attraverso le parole che tali diversità si incontrassero, si
confrontassero, molti errori probabilmente sarebbero stati evitati. Se gli orrori compiuti ad Auschwitz e negli
altri campi di sterminio non fossero stati documentati, svelati, raccontati,
descritti minuziosamente, essi sarebbero stati dimenticati e non sarebbero
state affrontate le responsabilità morali e materiali di chi ha fatto sì che
quest’orrore venisse compiuto, di chi lo ha pianificato in ogni minimo
particolare, mettendo in pratica una tecnica e dando vita ad una organizzazione
burocratica che gestisse la progressiva distruzione di un intero popolo: quello
ebraico. E perché ciò avvenisse non è servita solo la spietata e folle
mente del dittatore, ma le migliaia di
mani che hanno eseguito i suoi ordini, che hanno compiuto materialmente
tanti orrori: persone comuni che si sono trasformati in spietati e cinici
aguzzini (tormentatori, persecutori di vittime).
La riflessione sull’importanza della memoria è
stata poi accompagnata dalla menzione dei “Giusti” e dal racconto di chi, per
primo, volle andare alla ricerca dei “Giusti tra le Nazioni”, come segue.
Un altro
pensiero di oggi voglio rivolgerlo al ricordo di chi in mezzo agli orrori
compiuti negli anni delle legge razziali (le leggi contro gli ebrei emanate in
Germania da Hitler nel 1933 ed in Italia da Mussolini nel 1938), in mezzo agli
orrori della deportazione di massa e dello sterminio, si distinse, mettendo in
pericolo anche la propria vita, per salvare quella di famiglie di ebrei. I nomi
dei tanti europei che diedero una mano a numerosi ebrei, offrendo loro aiuto e
protezione dal regime, sono venuti fuori a poco a poco nel corso degli anni
successi alla seconda guerra mondiale e grazie all’iniziativa di un ebreo di
nome Moshe Bejsk. Chi era Moshe
Bejski? Era un magistrato israeliano (ebreo), morto nel 2007 ed internato a
partire dal 1942 (all’epoca aveva 21 anni) in un campo di concentramento
insieme a tutta la sua famiglia. Lì, nel campo di Krakòw-Plasow, vicino a
Cracovia (in Polonia) lui conosce Oskar
Schindler, un imprenditore tedesco che usò la sua azienda che produceva
pentole e tegami da fornire all’esercito tedesco per dare lavoro a molti ebrei,
salvandoli così dalla deportazione e dalla morte. La storia di quest’uomo,
Oskar Schindler, è stata raccontata dal regista Stephen Spielberg in uno
splendido film Schindler’s list (la “lista” di Schindler). Moshe Bejski è
stato uno degli ebrei di quella lista, insieme ai suoi due fratelli.
Così Bejski,
dopo la guerra, dà vita ad un progetto cui si dedicherà per il resto della sua
vita: quello di cercare tutti quegli europei che come Oskar Schindler avevano
contribuito a salvare dalla morte degli ebrei. A tutti questi nomi, che via via
vengono fuori attraverso testimonianze dirette dei sopravvissuti, attraverso
documenti ecc… viene riconosciuto il titolo di “Giusti tra le Nazioni” ed in
onore di ognuno viene piantata inizialmente una pianta nel cosiddetto Giardino dei Giusti a Gerusalemme,
vicino al museo Yad Vashem o museo della Shoah. I Giusti tra le Nazioni fino al 2013 trovati sono circa 25.000, di cui
610 sono italiani. Fino agli anni ’90 per commemorarli, come vi dicevo,
veniva piantato un albero per ognuno di loro. Essendosi esaurito lo spazio per
la piantumazione nel Giardino dei Giusti, oggi si scolpisce il nome di ciascun
giusto su un apposito Muro d’Onore costruito nello stesso giardino.
Tra gli
italiani “Giusti” vi fu Carlo Angela,
padre del noto conduttore televisivo, Piero Angela e nonno dell’attuale
conduttore del programma “Ulisse. Il piacere della scoperta”, Alberto Angela.
Carlo
Angela era medico e antifascista (avversario del regime di Mussolini in
Italia), piemontese. Egli, tra il 1943 ed il 1945, nascose nella clinica di San
Maurizio Canavese, “Villa Turina”, casa di cura per malattie mentali, numerosi
ebrei ed antifascisti, facendoli passare per malati mentali, grazie alla
collaborazione anche di suore d infermieri della clinica. La sua azione è
venuta alla luce solo nel 1995, quando Anna Segre ha pubblicato il diario
del padre, Renzo Segre, un ebreo che insieme alla moglie si salvò grazie a
Carlo Angela che li ricoverò entrambi nella sua clinica. Sospettato dalla
polizia fascista, Carlo Angela fu convocato a Torino ed interrogato, rischiando
di essere fucilato. Salvatosi, dopo la fine della guerra nel ’45 fu nominato
sindaco di San Maurizio ed a lui è anche dedicata una via del paese, quella in
cui sorge la clinica.
Concludevo così la riflessione con i miei allievi
dello scorso anno:
Da queste
due ultime storie che abbiamo letto insieme, quella di Schilndler e quella di
Carlo Angela, vorrei che ricordaste, se non i particolari, l’insegnamento che
se ne ricava: in mezzo a tanto orrore,
in mezzo a tanto male si può sempre scegliere da quale parte stare, se da
quella del male o da quella del bene. Dipende da quanto amiamo la nostra
vita e quella dei nostri simili, da quanto vogliamo che nella vita, anche
in mezzo all’orrore, il bene possa sempre trovare posto.
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