mercoledì 11 marzo 2020

Storia di quella volta in cui ci dicevano che tutto sarebbe andato bene. E così fu.

Per me stamane il risveglio è stato diverso: dopo il discorso di Conte, il nostro Presidente del Consiglio, ieri sera alla nazione, addormentarmi non  mi è stato facile.
In realtà io faccio questa vita da reclusa dal 23 febbraio, da quando per la prima volta  qui in Piemonte non siamo rientrati a scuola,  subito dopo le vacanze di Carnevale. Ma lo stato d'animo era del tutto diverso da oggi. Da quel giorno, però, il mio tempo ha iniziato a scorrere assai più lentamente, scandito da un nuovo ritmo, senza il suono familiare della campanella di scuola. Scandito da quelle date che hanno spostato il ritorno a scuola sempre più avanti: il 2, il 9, 16, per ultimo il 3 aprile. Ora chissà.
È difficile fare previsioni:
non so e non sono nelle condizioni di sapere se non quello che in queste settimane più o meno tutti sappiamo perché leggiamo, ascoltiamo, ci informiamo. 
 Ora forse è più chiaro per tutti  che  RESTARE A CASA è un dovere verso la nostra nazione.
Ciò che so è quel che  provo, però. Non è solo la paura di ammalarmi o che qualcuno dei miei cari si ammali.
Checché se ne dica in termini di guarigioni, io la paura che il virus venga ad abitare nel mio corpo o in quello dei miei cari  la provo. 
Sto leggendo "Spillover" di David Quammen. E non dico altro.
Ma alla paura è compagna anche una profonda amarezza. Ed è quella che il più delle volte mi  muove al pianto.
Talora mentre mi trovo davanti allo schermo acceso del mio pc a registrare audio lezioni per i miei ragazzi,  accade che m'interrompa perché un nodo in gola mi impedisce di andare avanti. E non è  tanto per ciò che sto dicendo, narrando o spiegando. No. Inevitabilmente la mente viaggia mentre immagino di rivolgermi alla classe: possibile che debba parlare loro senza vederli, mi chiedo?  Che siano talmente distanti da me stavolta da non esserci affatto? Già, perché l'unica distanza che ho sempre misurato, insegnando, è quella che separa la mia cattedra dai loro banchi: io non ne conoscevo altre fino a questo momento. E come me, i tanti colleghi e le tante colleghe della scuola italiana tutta.  Penso alle maestre dell'infanzia e della primaria: di queste ultime, in particolare, mi è capitato di leggere alcune riflessioni scritte sui social di recente. Per loro  è ancora più difficile  interagire con i bambini a distanza: a quell'età il contatto, l'interazione, la voce umana è parte dell'insegnare. Spesso in questi giorni mi è venuta in mente una splendida foto di Bea, maestra di danza di mia figlia, che tempo fa mostrava come  si concludono le  lezioni con le sue piccole ballerine: con un grande abbraccio. E proprio l'altroieri, quando Celeste con il suo tutù svolgeva la sua lezione a distanza, contenta perché la sua maestra "fosse in televisione", grazie alla videolezione inviataci, il  commento finale di mia figlia mi ha riportata a quella foto:
 "Mamma, è anche bello fare lezione così, però manca il finale: l'abbraccio!"
Ieri sera Celeste ha disegnato qualcosa e come talvolta fa, ha voluto che io e suo padre ascoltassimo la storia ispiratale da quel disegno. Ha raccontato perciò di un cane altissimo, con il muso puntato al cielo che gli impediva di vedere chi calpestava tutte le volte in cui si muoveva. E solo un vulcano-che poi divenne suo amico- glielo fece capire: gli bruciò le zampe per fargli abbassare gli occhi e capire cosa ci fosse in basso. Il cane capì allora che non c'era solo lui e che avrebbe dovuto d'ora in avanti fare  molta attenzione. È un suo modo, abbiamo pensato io e suo padre, uno dei tanti, per rielaborare quello che sente e vede intorno a sé da giorni: siamo distanti da tutti perché se stiamo attenti a questa regola non ci ammaleremo e potremo tornare a stare vicini. Gli zii la salutano dalla finestra al momento, perché sono stati in giro per lavoro fino a pochi giorni fa.
E dalla nonna andiamo poco perché ha 88 anni e temiamo per la sua salute. E i compagni, la maestra Silvana? Li videochiamiamo, ci videochiamano: così colmiamo la distanza  rimanendo lontani.
Penso ai miei allievi "terzini" cui  io abbracci in genere non ne do mai, ma ai quali in questo momento lo scrivo di continuo: "vi abbraccio: a questa distanza lo posso fare"♥️
Penso ai miei genitori, alla famiglia di mio fratello, alle mie nipoti, a Vale, la lontananza dai quali non mi è mai pesata tanto come adesso.♥️♥️
Penso ai miei amici: anche con loro accorciamo la distanza chiamandoci spesso. Alcuni sono soli qui perché  arrivano da giù e responsabilmente non sono partiti. Così penso a come si sentano ancora più soli in questo momento. 
Osservo mio marito Luca, che in questi giorni ha smesso di suonare: ed io so che quando la tastiera del suo pianoforte tace, il mio pianista preferito silenziosamente soffre.
Siamo diversi in questo: io esterno, forse anche troppo, lui, invece, troppo poco. 
"Andrà tutto bene" è diventata una frase "antivirale" in questi ultimi giorni: e serve a dirci che tutto passerà.  
Oggi anche noi tre la scriveremo a colori su un lenzuolo bianco, e come già molti hanno fatto, anche noi appenderemo la nostra speranza alla ringhiera del balcone, quello che dà su via Vittorio Veneto. Viviamo lungo una via che reca il nome di una vittoriosa battaglia: quella del 24 ottobre 1918, la riscossa del regio esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto. Di lì a poco Armando Diaz annunciò  alla nazione la fine della Grande Guerra, della Prima Guerra Mondiale.
È come una grande guerra anche questa al momento: c'è chi combatte in prima fila, come i medici, gli infermieri degli ospedali di tutta Italia; le forze dell'ordine per le strade. C'è chi non può stare a casa perché il suo ruolo istituzionale glielo impone: i nostri politici. Ci nostri giornalisti che continuano a fare informazione. Il mondo ha gli occhi puntati sul nostro Paese. Tanti turisti amano l'Italia e gli italiani: ed è bello immaginare che adesso tante persone stiano facendo il tifo per noi♥️♥️♥️
"Andrà bene ed io vi voglio bene" è l'ultimo contenuto didattico che ho condiviso ieri sera, con i miei allievi di terza, sulla nostra classe virtuale, prima di addormentarmi. Gliel'ho scritto nella didascalia ad una foto di gruppo dello scorso anno. Eravamo al Salone del libro di Torino il 10 maggio 2019, giorno nel quale il temerario Davide si è messo in coda per strappare un autografo al caro Sepulveda, riuscendoci. Lo scrittore cileno si è ammalato proprio qualche giorno fa, e tutti noi suoi lettori facciamo anche il tifo per lui.
Anzi noi speriamo che Sepulveda torni presto a raccontarci un'altra storia, bella come le tante che ha scritto finora. La mia preferita ha come protagonista una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza. E credo che in questi giorni "lenti" leggerla ci farebbe bene♥️Perché tutti ci sentiamo un po' lumache in questo momento, alla scoperta dell'importanza dell'essere lenti. 
Occorre credere che andrà tutto bene, e che a distanza di tempo, quando questo tempo di distanze sarà finalmente terminato, tutti  saremo anche capaci di raccontare la nostra storia, ognuno a modo proprio. 
Io la mia l'ho voluta già scrivere e ho pensato anche a chi dedicarla. Fa così
"Storia di quella volta in cui ci dicevano che tutto sarebbe andato bene. E così fu." A Louis Sepulveda♥️ e a tutti noi♥️♥️

 

4 commenti:

  1. Complimenti!!! Leggerti è di una piacevolezza rara.
    Un bacio a Maria Celeste ed un abbraccio a te e Luca.

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  2. Tra queste splendide parole, ho letto un riferimento anche a me. Ti abbraccio e ti rinnovo la mia stima infinita. ❤️❤️

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