sabato 30 luglio 2016

"Il terrazzino dei gerani timidi" di Anna Marchesini

Pubblicato nel gennaio del 2011,"Il terrazzino dei gerani timidi" è stato il primo romanzo di Anna Marchesini che ho letto nel giugno di quello stesso anno. Una passeggiata  lungo alcune "prime volte, quelle in cui si accende la storia e l'esperienza delle cose".
Nel racconto di sé, dei più salienti ricordi di infanzia e della prima adolescenza,  la voce narrante siede sul quel terrazzino "fiorito dei gerani timidi, per lungo tempo recinto silenzioso e imparziale delle sue preziose solitudini".
Dalla sua "stanza tutta per sé" a cielo aperto, la piccola Anna  osserva la vita che la circonda: le sue riflessioni s'intrecciano con il racconto  della vita di altri, di quei personaggi su cui si posa lo sguardo umoristico dell'autrice.
Gli occhi della memoria di una bambina timida e attenta riportano a galla alcune delle figure che più a lungo o con più intensità hanno abitato il paesaggio umano della sua infanzia. Suor Giuseppina "per la quale sembrava non ci fosse ormai piacere maggiore che averla finita con la giovinezza e tutto il resto". Memmo il falegname e la signora Elvira, la "finestrarola" che quasi a volersi consolare della disgrazia toccata al marito, sente "l'urgenza archeologica di conoscere tutti i particolari di una delle disgrazie che deteneva il maggiore mercato nel passaparola". Il povero Terenzio, la cui esistenza, in seguito al dolore per la perdita del suo unico figlio, era stata trascinata "dentro un'area deprivata di memoria, di sensi, di partecipazione [...]  lui che la sua partita col  dolore l'aveva persa e che dentro quella testa inconsolata, cui provvedeva compiacente la maternità della follia" aveva trattenuto qualcosa, "una indelebile traccia, ubiqua, di quella storia" che non si stancava mai di ripetere- Signori alle sette si muore.
Tra questi e altri personaggi, però, quella che più a lungo domina la scena è la figura della madre, maestra di professione e di vita per la piccola Anna, le cui poche ma eloquenti parole, foriere di continui ammonimenti si ergono imponenti nella vita della bambina, empiendo giorno dopo giorno il forziere interiore di quelle "verità"- sul decoro, sugli uomini, sull'"amore"- destinate ad avere un peso non indifferente nella sua vita di bambina, di ragazza e infine di donna.
-Restituiscilo subito -Alzati e cedi il posto -Aspetta il tuo turno! -Stai buona che la mamma si stanca.
Attenzione a non cedere alle cattive tentazioni da fidanzata." Il fidanzato a quel punto mi avrebbe lasciato e io non avrei più trovato nessuno che mi avesse voluto, innanzitutto perché la voce si sarebbe sparsa e poi, ammesso che avessi trovato un altro fidanzato ignaro, di sicuro...Giunta a questa parte della ricostruzione, svaporarono i termini, la mamma si arrestò spossata dallo sforzo dei rifiuti, dalla fatica dei vade retro, dalla flagellazione delle colpe; la lasciai a pregare nell'orto degli ulivi".
E ancora il ricordo va a "quel giorno che la mamma l'aveva abbracciata e le aveva rivelato che lei era nata per caso, non sapeva come, nessuno l'aveva voluta, che la mamma non avrebbe più dovuto avere gravidanze, che tanto aveva pianto perché la sua nascita avrebbe potuto comprometterle la vita  [...] Quella rivelazione l'aveva fatta sentire orfana. E su quella nascita per caso, lei stava cercando di tenersi in piedi senza piangere".
La mamma trasformerà persino la sua "festa" - la prima comunione-  in una penitenza, in un sacrificio da offrire a Dio,  cosa che peraltro puntualmente ella faceva fare alla piccola Anna, costringendola a "scottarsi col dolore degli sconosciuti". Così proprio nel giorno della  sua prima comunione, festa tanto attesa, la mamma porta Anna  a far visita alle tre sorelle del parroco del paese che non escono di casa da almeno un decennio. Il ricordo di quella casa piena zeppa di "relitti di almeno tre generazioni, piena zeppa di gatti" abitata da tre sorelle zitelle, Erminia, Ghita, Caterina e dalla zelante perpetua del fratello parroco, alla quale "era come se ago e filo tenessero cuciti insieme tutti gli elementi del suo viso",  si rivela uno spaccato tragico-comico di vita, anzi di vite. "C'era un racconto infinito che legava quelle sorelle e quella casa e quelle storie, una specie di musica che avrei voluto ascoltare, conoscere e vedere, che avrei voluto sentir narrare".
Sarà di lì a poco la scoperta del teatro ad illuminare la vita della piccola Anna, in una mattina nella quale lei  insieme alla sua classe va ad assistere ad uno spettacolo teatrale, il cui titolo letto sulla locandina le rievoca immediatamente  quello letto su un libricino ricevuto proprio due anni prima in dono da una delle tre sorelle di don Luigi e che Anna, però, non aveva ancora letto. Sul libro, donna Caterina, nel giorno della visita di Anna, aveva scritto anche una dedica: "La vita, mia cara, è piena di complicazioni, perciò bisogna amarla con tutte le nostre forze! Ricordalo". Il libro è "L'uomo dal fiore in bocca" di Pirandello che, dopo lo spettacolo, Anna torna a casa a leggere, lì su quel terrazzo che si trasforma nel suo "quinto elemento naturale, la culla termica della sua nuova silenziosa avventura, la sala da ballo senza imbarazzi e senza posti vuoti, quella in cui gli ospiti invitati le piacevano"[...] .La letteratura diventa di lì a poco il suo grande amore . "E col tempo non furono solo e storie e i personaggi che riuscivo ad avvertire come inquilini che si accomodavano dentro, e con frastuono silenzioso, accendevano luci; quando una scrittura mi piaceva, leggevo tutto di quell'autore, tutto, anche la biografia, così imparavo a riconoscerlo, sentivo la penna, immaginavo l'inclinazione del volto sulla pagina, ne sorridevo".
Rileggendo alcune delle pagine del suo romanzo oggi, giorno in cui Anna non c'è più, portata via da una lunga malattia, una di quelle "complicazioni" di cui la vita è piena, anch'io sorrido, ripensando a ciò che lei, con i suoi personaggi, è stata capace di regalare al suo pubblico, straordinaria come poche nell'arte di far ridere.
"Mi piaceva ridere, mi sembrava che ridere facesse vedere più cose del vero, fosse come sollevare la crosta al mondo, dove si nascondevano le ombre bianche delle cose; la curiosità era per me un'emozione potente [...] quanto potente era esistere- mi dissi- in certi momenti era come se lo stesso universo mi vivesse dentro e cercasse il suo spazio, non mi sarebbe bastata la vita per vivere, non mi bastava e non volevo rinunciarci, era il sogno di vivere che mi colmava dentro come un'isola dalle alte maree".
E allora grazie Anna, per la passione di vivere che sei stata capace di regalarci.

domenica 24 luglio 2016

L'islam spiegato ai nostri figli e agli adulti che vogliono rispondere alle loro domande

Quando Tahar Ben Jelloun ha scritto e pubblicato questo libro, nel 2001, la data dell'11 settembre aveva appena fatto il suo tragico ingresso nella storia contemporanea, inaugurando una nuova era, quella nella quale l'appartenenza al mondo arabo e musulmano preoccupa e spaventa.
"Papà io sono musulmana?"
"Sì, come i tuoi genitori"
"E sono anche araba?"
"Sì, sei araba, anche se non parli questa lingua"
"Ma hai visto anche tu la televisione: i musulmani sono cattivi, hanno ucciso molte persone; io non voglio essere musulmana"
"E allora cosa pensi di fare?"
"D'ora in poi a scuola non rifiuterò più la carne di maiale in mensa"...
È così che ha inizio il racconto dialogico tra padre e figlia: lui è l'autore franco marocchino Tahar Ben Jelloun che, tra le sue tante opere, nel 1998 aveva già pubblicato un volumetto didascalico, "Il razzismo spiegato a mia figlia", giunto oggi alla sua quarantottesima edizione .
"L'islam spiegato ai nostri figli e agli adulti che vogliono rispondere alle loro domande" nasce, come si è detto prima, da un'occasione contingente, dalla necessità di condividere, all'indomani dell'attacco alle Torri gemelle, un racconto sull'islam e sulla cultura araba non solo con i propri figli, ma anche con gli altri "bambini -qualunque siano il loro paese, la loro origine, la loro religione, la loro lingua e anche le loro speranze".
Il dialogo generazionale si articola lungo nove giornate per così dire a tema. A premessa della seconda giornata così scrive l'autore:
Ho immaginato cosa sarebbe diventata questa discussione se l'avessi proseguita con dei bambini di età compresa fra i dieci e i quindici anni. Ho immaginato le loro domande, la loro preoccupazione, la loro impazienza.[...] Non cerco di convincere nessuno, racconto il più oggettivamente possibile e nel modo più semplice possibile la storia di un uomo diventato profeta e anche la storia di una religione  e di una cultura che tanto hanno dato all'umanità.
Come ebbe a scrivere una giornalista recensendo un volumetto dall'analoga impostazione ma d'altro contenuto - "La Resistenza spiegata a mia figlia" di Alberto Cavaglion-, anche in questo caso  "fare il punto non significa non avere un punto di vista etico-morale. Una lettura dietetica: si esce dal centinaio di pagine senza il senso di aver ingurgitato chili di panna montata”.
Grazie al suo tentativo di "spiegare" l'islam ai più giovani, Tahar Ben Jelloun è stato più volte invitato ad incontrare il suo pubblico nelle scuole: l'edizione Bompiani del 2016 raccoglie nella Postfazione che segue il dialogo altri scritti dell'autore, due dei quali sono proprio relativi ai rispettivi incontri con gli studenti dei licei di Milano e Torino sull'islam. Alle domande "immaginate" dall'autore all'interno del suo scritto, ogni volta  se ne sono sempre aggiunte di altre e di nuove, come lui stesso scrive: "Quali sono le contraddizioni interne al Corano?"; "Cosa ha fatto secondo lei l'America per meritarsi l'11 settembre?" "Perché gli americani si sono isolati e non sono interessati agli altri?" (le dichiarazioni di Trump oggi in corsa per la Casa Bianca, pertanto, non sono che l'espressione estrema di una certa tendenza americana); "C'è violenza ovunque, cosa fare per risolvere tutti questi conflitti?".
"Un giorno - scrive l'autore - dopo una conferenza alla facoltà di Lettere di Rabat, uno studente si è alzato e mi ha posto questa domanda:" Lei crede in Dio?" Rumore in sala e poi un silenzio sospetto. Immaginavo che tutti  volessero pormi questa domanda, ma solo lui aveva osato . Mi sono preso un po' di tempo e poi gli ho detto: "La cosa non la riguarda: è una questione privata e non sono qui per raccontarvi la mia vita!" Incomprensione, schiamazzi, e poi di nuovo silenzio. Ne ho approfittato per esporre la mia idea di laicità. [...] Mentre me ne andavo una ragazza con il foulard mi ha avvicinato per dirmi:" Detto tra noi, lei è un credente; non è possibile che una persona come lei non sia un buon musulmano".
È proprio la prospettiva laica quella dalla quale l'autore guarda ed invita a guardare non solo l'islam ma ogni religione, la stessa prospettiva che è alla base di questo libro e che  potrebbe dirsi ricetta capace di "ripulire" la religione, ogni religione, dal fanatismo e dall'intolleranza.
"La laicità non è la negazione della religione; al contrario è una forma di rispetto nei suoi confronti, nella misura in cui è vissuta nella sfera privata e non pubblica [...] Il suo fondamento è che il credo religioso non interferisca con il campo politico e culturale".
Già Averroè, vissuto nel XIII,  nato a Cordova, importante regno arabo nel Medioevo, e costretto a fuggire da lì proprio per le sue idee e a morire poi esule in Marocco, aveva parlato per primo della necessità di attribuire una certa logica al fatto di credere, aveva fatto notare che la religione musulmana veniva utilizzata con secondi fini e che c'erano al suo interno sette, clan di persone che si rifiutano di discutere e di accettare il contributo degli stranieri. Le sue denunce, però, non furono condivise dai politici di allora. "Da questo momento, - scrive Tahar Ben Jelloun a conclusione della sesta giornata del suo racconto dialogo- la cultura musulmana sarà contaminata dal fanatismo e dell'intolleranza."
Dopo i secoli d'oro della cultura araba, tra il IX e il XII, secoli nei quali la lingua e la cultura araba furono per il Medioevo ciò che la civiltà greca era stata per l'antichità, ha inizio la decadenza:  la Storia ci racconta  dell'appoggio richiesto dai califfi ai mercenari selgiuchidi, per la difesa del proprio territorio che porterà i Turchi di lì a poco a prendere il potere politico. Della crisi di un così vasto impero, quello arabo-musulmamo, diviso al suo interno tra regni sunniti- quelli ad esempio di Cordova e Baghdad- e regni sciiti - quello di Al Cairo- approfitterà la Chiesa occidentale con le sue Crociate, tra XI e XIII secolo, gli stessi secoli durante i quali i principi cattolici della penisola iberica metteranno in atto la loro Reconquista.
A partire dal 1492, il mondo cambia: non solo l'ultimo baluardo della cultura araba in occidente crolla- Granada- ma s'interrompe la pacifica convivenza tra ebrei e musulmani realizzatasi in Andalusia, da dove sia gli uni che gli altri verranno perseguitati e deportati. L'unica alternativa per quanti vorranno restare sarà  il battesimo o la morte, sebbene anche dopo la conversione ai "mori", come erano chiamati, non venisse risparmiata la persecuzione.
È lì che storicamente ha  inizio l'isolamento del mondo arabo, scrive Tahar Ben Jelloun :" gli sarà vietato di avere relazioni commerciali con l'Europa; la filosofia araba continuerà a essere insegnata nelle università europee ma, nello stesso tempo, smetterà di svilupparsi e soprattutto di essere studiata nel mondo arabo-musulmano. Al suo posto, al posto della filosofia che ci insegna il metodo, il dubbio e la riflessione, che ci apre orizzonti diversi e molteplici sul pensiero degli altri popoli, verrà insegnata solo e unicamente la religione islamica. E chi dice religione dice credenza, assenza di riflessione e di dubbio".
Ecco perché secondo lui è sul piano della conoscenza che la lotta al terrorismo oggi va combattuta. "L'Europa deve studiare il modo più scientifico per lottare contro i vari elementi di fanatismo islamico" . Lo deve "ai tanti cittadini musulmani che vivono nei suoi territori e fanno progressivamente parte del suo paesaggio umano", lo deve a quanti l'islam non lo conoscono affatto se non per pericolosi luoghi comuni  che oggi portano gli  stessi  ad associare l'essere musulmano con l'essere fanatico e intollerante verso chi non pratica l'islam.
L'islamizzazione delle menti va arginata: Tahar Ben Jelloun la definisce come una sorta di "colonizzazione delle mentalità da parte di quest'ignoranza che autorizza qualsiasi uomo pieno di sé ad erigersi a imam, a fare prediche e a dare consigli, a dare ordini, in relazione alla condotta della vita intima di ciascuno".
Gli islamisti si servono  dei canali della televisione satellitare nei paesi del Golfo e del Vicino Oriente per mandare in onda di continuo una propaganda contro la Ragione, lo sviluppo, lo spirito di libertà e di laicità, contro l'Occidente, che fa presa sui cosiddetti spiriti deboli, ecco perché  è proprio in Occidente che la battaglia laica va combattuta sul piano culturale.
Come? Ad esempio, non lasciando le moschee europee in mano a coloro che utilizzano l'islam per ragioni che non hanno nulla a che fare con la religione.
Ibd Kaldhun nel XV secolo, Al-Afghani nel XIX e Mohammed Abduh nel XX, saggi arabi, studiosi della loro stessa società hanno parlato dell'importanza di cambiare alcune regole e abitudini nel modo di praticare la religione, di riformarla, poiché l'interpretazione letterale di un testo che fa riferimento per moltissimi  aspetti ad un'epoca assai lontana, di quindici secoli fa, è un  modo riduttivo, schematico e caricaturale di interpretare il messaggio del profeta Maometto.
Nel marzo scorso, all'indomani degli attentati terroristici  in Belgio, tante testate giornalistiche hanno parlato della grande moschea saudita in Belgio, sorta in un antico palazzo che nel 1967 il re Baldovino pensò di cedere in affitto per 99 anni all’Arabia Saudita, in occasione della visita di re Faisal ben Abdelaziz. Erano anni nei quali  l’immigrazione musulmana stava diventando significativa, i fedeli islamici avevano bisogno di un luogo di culto e gli affari con i petrolieri sauditi non ne avrebbero certo sofferto. Le autorità saudite hanno fatto di quel luogo il centro in Europa per la diffusione del wahabismo, la linea di pensiero estremista alla base delle organizzazioni terroristiche di matrice islamica  in Europa. Oil for Islam, titolava qualche giornale dopo gli attentati terroristici di Bruxelles. Forse, però, sarebbe stato più corretto dire Oil to islamize.  

venerdì 22 luglio 2016

Diario partigiano" di Ada Gobetti, una donna della Resistenza.

Ada Gobetti è l'autrice di "Diario partigiano", lettura alla quale mi sono dedicata nella prima decade di luglio.
La narrazione prende l'avvio dal pomeriggio del 10 settembre del '43, due giorni dopo l'occupazione militare del paese da parte dei tedeschi, che da alleati degli italiani in guerra -dal '40 al '43- ne diventano  nemici in seguito alla firma da parte di questi ultimi   dell'"armistizio" (una "resa senza condizioni")  con gli angloamericani. L'accordo con coloro  che da allora in poi verranno chiamati Alleati, fu firmato il 3 settembre a Cassibile, località siciliana nei pressi di Siracusa,  e  venne reso noto l'8 settembre,  prima attraverso Radio Algeri per bocca del generale inglese Eisenhower e, circa un'ora più tardi, dai microfoni dell'EIAR  da Pietro Badoglio, maresciallo al quale il re Vittorio Emanuele III aveva affidato il governo militare del paese, dopo che nel luglio dello stesso anno Mussolini era stato destituito dallo stesso Gran Consiglio del Fascismo.
Così scrive Ada all'inizio del suo racconto:" Capivo, pur confusamente, che s'iniziava per noi un periodo grave e difficile, in cui avremmo dovuto agire e lottare senza pietà e senza tregua, assumendo responsabilità, affrontando pericoli d'ogni sorta. Tutto questo personalmente non mi spaventava; il mio ideale di bambina, di adolescente - e in fondo in fondo, ahimè, anche di persona adulta - non era stata forse "la piccola vedetta lombarda"?".
"Confusamente" è  parola che torna di nuovo in una delle pagine finali dell'opera, poco dopo la liberazione di Torino del 28 aprile 1945:
"Confusamente intuivo però che incominciava un'altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora non più di combattere contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, - facili da individuare e da odiare, - ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli e sfuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare; per non abbandonarci alla comoda esaltazione di ideali per tanto tempo vagheggiati, per non accontentarci di parole e di frasi, ma rinnovarci tenendoci "vivi" [...] Sapevo che saremmo stati in molti a combattere questa  dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri, sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stato un unico sforzo, non avrebbe avuto più un unico, immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi [...] Tutto questo mi faceva paura. E a lungo in quella notte mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo essere degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che m'accingevo ad affrontare con trepidante umiltà".
Tra la confusa percezione di ciò che attende il nostro paese nel settembre del '43 e la trepidante attesa di quel che l'Italia sarà dopo il 1945, ci sono l'agire e gli attori di quei venti mesi di lotta, di quella  “guerra per bande” che, come scrive Alberto Cavaglion nel suo saggio La Resistenza spiegata a mia figlia appare la "definizione più appropriata per quella guerriglia confusa che si propone di rendere precario il controllo nazifascista del territorio, che organizza puntate offensive verso installazioni o presidi, sabotaggi alle comunicazioni o azioni mirate a destabilizzare in specie le amministrazioni fasciste (requisizione di grano o di bestiame)."
E Ada Gobetti chi è stata? 
Si chiamava  Ada Prospero da nubile, era torinese, nata nel 1902 da padre svizzero e madre d'origine slava. Ada Prospero è, però, meglio conosciuta come  Ada Gobetti, dal cognome dell'uomo che ella sposò nel 1923 e del quale fu, prima ancora che sposa, collaboratrice intelligente delle sue lotte e iniziative: Piero Gobetti, pensatore e politico torinese.
Ada e Piero si erano conosciuti al liceo che entrambi frequentavano, il liceo classico "V.Gioberti" di Torino nel 1916. Con Piero Ada aveva condiviso il sogno di una "rivoluzione liberale", nome dato anche ad una rivista pubblicata a partire dal 1922, con  l'intento  "di venire formando una classe politica che abbia chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato". Piero Gobetti fu uno dei più convinti nemici del fascismo sin da subito: in un telegramma del 1924 Mussolini ordinava perciò al prefetto di Torino di «rendere la vita difficile a Piero Gobetti, insulso oppositore del governo e del fascismo». La prefettura su ordine di Mussolini fece sospendere la pubblicazione di "Rivoluzione liberale" nel 1925. La persecuzione da parte del regime, inoltre, condusse di lì ad un anno Gobetti prima  all'esilio e poi alla morte: egli morì, infatti,  giovanissimo, nel 1926, all'età di soli 25 anni, nell'esilio parigino cui era stato costretto, dopo aver subito una violenta aggressione fisica squadrista all'uscita dalla sua casa editrice, la "Piero Gobetti editore".  Ada, vicina al marito fino alla fine, rimase perciò vedova giovane, ad appena 24 anni e con un figlio, il piccolo Paolo, nato poche settimane prima che Piero morisse. Ma la morte dell'uomo che aveva amato e ammirato non fece affatto diminuire in Ada la volontà di prendere parte alla lotta contro la dittatura fascista nella quale  è coinvolto in prima persona anche Paolo che nel '43 ha appena diciotto anni:
"Tremavo per mio figlio che vedevo lanciato così decisamente verso l'azione. Cercai di parlargliene nel pomeriggio [del 10 settembre ndr] sul terrazzo dominato dal Rocciamelone, legato al ricordo di tante ore lontane d'innocente riposo e di giochi sereni [...] Non c'era bisogno di prendere decisioni, disse. Ci avrebbe pensato la situazione stessa a dirci quel che bisognava fare. Per lui era tutto così semplice. Ma forse aveva ragione. In momenti simili parole e programmi erano inutili. Avremmo fatto giorno per giorno quel che avremmo sentito di dover fare".
La casa di Ada a Torino, in via Fabro, quello che negli anni dell'ascesa di Mussolini al potere era stato luogo di incontri per quanti  volevano contrastare il fascismo, continuò dal 10 settembre del '43 a riempirsi di gente. Gli allievi e gli amici di Gobetti si incontravano lì con nuovi antifascisti e nuovi allievi: fu, infatti, in quegli anni, quelli corrispondenti al biennio della Resistenza che quelle persone fondarono il Partito d'Azione, la cui storia fu chiara e unitaria fino alla caduta del fascismo, ma in seguito, di fronte ai nuovi problemi del dopoguerra, si divise in più rami che confluirono in altri partiti della sinistra italiana.
E  la scrittura del "Diario partigiano" da dove nasce?
 L'autrice, come si legge nell'introduzione al testo di Goffredo Fofi, curatore dell'edizione Einaudi del '72,  dichiara che la nascita del Diario è avvenuta anche grazie alle sollecitazioni ricevute dall'amico e filosofo Benedetto Croce, il quale, alla fine della guerra, quando i due si rividero, confessò ad Ada che non riusciva a rendersi conto se non in parte e male di cosa concretamente era stato il fenomeno della Resistenza e della lotta partigiana. Ada aveva preso quasi quotidianamente appunti tra il '43 e il '45, scrivendo in un inglese cifrato comprensibile solo a lei, per paura che tedeschi o fascisti potessero comprendere quanto da lei scritto se mai ne fossero venuti in possesso. Da quella sollecitazione e da quei tanti appunti nasce l'intensa narrazione del "Diario partigiano".
Ada narra, come scrive
Fofi  nella sua introduzione, con quella " [...] calda umanità, semplicità e simpatia che la portarono a capire così bene la ragioni degli altri quando negli altri sentiva una spinta morale simile alla sua, si trattasse di incolti montanari come di raffinati intellettuali."
Nel Diario trovano spazio alla pari sia note figure dell'antifascismo che uomini, donne, ragazze, operai, contadini e montanari che dopo la Resistenza tornarono in tutta semplicità al loro posto di lavoro: tanto i primi quanto i secondi furono gli attori protagonisti della Resistenza.
Il Diario  non è soltanto una descrizione del loro ammirevole valore: la narratrice posa lo sguardo tante più volte sui limiti e le contraddizioni di fatti e personaggi, rifugge da ogni sentimentalismo anche laddove i fatti narrati si fanno più tragici e servendosi semmai di un genuino senso dell'umorismo, sa mettere in risalto spesso anche particolarità e  manie di quanti parteciparono inconsapevoli alle vicende della storia di quel periodo.
Per un'antologia di "Diario partigiano"
In alternativa alla lettura integrale del Diario, per un lavoro d'aula sul tema della Resistenza si potrebbe proporre ai ragazzi una selezione di passi e  brani, una sorta di piccola antologia a tema che permetta loro di cogliere, attraverso il racconto di chi ne fu protagonista, i molti e contraddittori  aspetti di quella dura e disperata lotta.
Ho provato a farlo per servirmene in classe il prossimo anno, selezionando dall'edizione Einaudi del '72   alcune pagine del Diario, facendole opportunamente precedere da un titolo cerniera che  guidi il giovane lettore nel passaggio da un brano all'altro: ne è venuta fuori una sorta di edizione ridotta del testo, corredata di un ampio apparato di note storiche ed esercizi di comprensione dei testi selezionati.

Il rogo di Stazzema" e "Le valigie di Auschwitz": l'infanzia ai tempi della guerra

"Il rogo di Stazzema" e "Le valigie di Auschwitz" sono rispettivamente un racconto e una raccolta di racconti per ragazzi: il primo è stato scritto da Annalisa Strada e Gian Luigi Spini; la seconda da Daniela Palumbo. I due libri sono stati pubblicati dalla casa editrice Piemme nella collana "Il battello a vapore", l'uno nel 2014 e l'altro nel 2011.
Ne " Il rogo di Stazzema" la vicenda principale si snoda lungo il breve arco temporale che va dall'11 agosto 1944- vigilia dell'eccidio di Stazzema- ai giorni immediatamente successivi di cui si racconta solo nell'ultimo capitolo, Come finì senza finire mai.
Nella Nota degli Autori, i due autori del libro riferiscono l'episodio reale cui s'ispira il racconto, pubblicato nel 2014, in occasione del settantesimo anniversario della strage di Stazzema: la storia di Enio Mancini, che all'epoca aveva 6 anni, come il protagonista della storia, Lapo. Lapo e la sua famiglia- il fratello Pietro, nonna Ida e la mamma, nonché  due sfollati, la signora Ornella e il figlio  Filippo-  fanno appena in tempo a fuggire da Sant'Anna, frazione di Stazzema, in provincia di Lucca, la mattina del 12 agosto del '44: è il giorno nel quale quattro reparti della sedicesima divisione Panzergrenadier delle Reichsfuhrer SS, guidati da collaborazionisti fascisti, attaccano Sant'Anna. Fu un attacco immotivato e inatteso poiché il territorio dell'intero comune era stato dichiarato "zona bianca" da quando i partigiani l'avevano abbandonato: lì tanti sfollati dalle città circostanti avevano trovato riparo per sfuggire ai bombardamenti e alle altre azioni di guerra. Sul sagrato della chiesa, dove i bambini fino al giorno prima "avevano giocato a ghinè e gli adulti avevano scambiato chiacchiere e cibo" una grossa mitragliatrice venne piazzata al centro e "quando arrivarono le cartuccere con i proiettili, molti stavano pregando ad alta voce". Furono 560 i civili vittime: donne, anziani e bambini.
Lapo e i suoi familiari si erano inoltrati scalzi su per la boscaglia, non senza notevoli difficoltà sia per i tre piccoli  che per le tre donne, tra cui l'anziana nonna Ida. È proprio lei, la nonna, che ad un certo punto si ricorda di quel che è stato dimenticato nella concitata fuga: aprire la stalla per far uscire Bianchina, la mucca che "se vivi in campagna è un tesoro, anzi è il tesoro". Per questo la comitiva di fuggiaschi decide di provare a far ritorno verso casa, tagliando dritto nel bosco, ma  qualcosa va storto e lungo il loro cammino essi s'imbattono in alcuni soldati tedeschi: per loro la "morte armata" ha un nome e un volto, quello  del soldato  Hans "la cui fede nella vittoria finale promessa da Hitler non lo abbandonava mai". Hans combatte da quando la guerra è iniziata: ha man mano sentito crescere dentro di sé la consapevolezza di "essere debole, di essere un numero insignificante anche per quegli stessi uomini che lo avevano mandato a combattere e ciò aveva accresciuto la rabbia: verso se stesso per essere stato un agnello che si lascia imbonire  per raggiungere il macello, e verso il mondo perché si stava abituando a sparare".

"Carlo, Italia", "Hannah e Jacob, Germania", "Emeline, Francia" e "Dawid, Polonia" sono rispettivamente i titoli dei quattro racconti della raccolta "Le valigie di Auschwitz".
Come narrato dall'autrice nelle prime pagine d'introduzione al testo, presso il Vernichtungslager (campo di sterminio in tedesco) di Auschwitz, oggi luogo della memoria, la stanza numero 4 del blocco 5 è occupata da una grossa teca che separa il visitatore da migliaia di valigie ivi ammassate.  "Su tutte ci sono scritti un nome, un cognome e un indirizzo. Ce ne sono di piccole e di grandi. [...] I soldati nazisti dicevano agli ebrei che sarebbero stati via a lungo, ma che avrebbero fatto ritorno a casa. Per ingannarli facevano preparare loro una borsa per il viaggio, ma se qualcuno chiedeva dove erano diretti i tedeschi non rispondevano. Come fai a preparare una valigia se non sai  dove stai andando?"
La storia di Carlo, quella di Hannah e del fratellino Jacob, affetto da un ritardo mentale, la storia della francesina Emeline e del piccolo polacco Dawid sono solo alcune delle storie contenute in quelle valigie, preparate di fretta tra la paura di un viaggio verso l'ignoto e la speranza di un ritorno verso ciò che si era obbligati a lasciare.
Ai bambini che vissero l'orrore  della persecuzione e/o della deportazione, scrive Bruno Maida ne "La Shoah dei bambini", venne meno, tra le altre cose, una grande e fondamentale fiducia: quella  nei confronti della cosiddetta "onnipotenza genitoriale". Le leggi razziali tolsero ai genitori la possibilità di dare risposte alle domande dei propri figli e, soprattutto, di  garantire loro una speranza di salvezza. 
Al silenzio di chi li ha generati seguono reazioni spesso di rabbia, di ribellione da parte dei piccoli protagonisti dei suddetti racconti che si vedono improvvisamente e irragionevolmente privati di tutto quello che prima era parte della loro quotidianità. Non  resta loro che "scegliere" cosa portare con sé di quel tempo passato: un mazzetto di biglietti del treno, un quaderno su cui annotare il numero delle stelle del cielo, un violino, il ricordo delle persiane blu...

mercoledì 13 luglio 2016

Tutti i bambini sono veri, come veri sono i loro giochi e la loro fantasia

"Kualid è un bambino afghano. Sì, un bambino vero, non solo il personaggio di una storia. Tutti i bambini sono veri, come veri sono i loro giochi e la loro fantasia. Kualid è un po' Ali, Massoud, Fahim... Kualid è i bambini che ho conosciuto in Afghanistan. La paura, lo stupore, il dolore ma anche l'allegria del suo sguardo sono gli stessi che ho trovato negli occhi di tanti bambini. Forse anche di voi che leggerete questo libro, che però avete la grandissima fortuna di non aver mai visto il mostro che è la guerra".
Sono le parole con le quali l'autore della storia "Kualid che non riusciva a sognare" ne presenta ai suoi lettori il protagonista: lui, l'autore, è Vauro Senesi, pistoiese d'origine, giornalista e vignettista satirico.
In una cornice temporale essenziale, che non indugia su alcuna data, la voce narrante guida il lettore lungo le strade di Kabul, quelle che percorre Kualid nella quotidianità entro la quale si svolge la sua vita di bambino. Poche, essenziali figure oltre alla sua popolano le pagine di questa storia, neppure tutte dall'inizio alla fine. Il nonno e la madre di Kualid, della quale il bambino fa fatica a rintracciare il sorriso sul volto se non è velato dal burqa, da quando il papà non c'è più. Said, il cugino di Kualid che prima lo chiamava il "Sorcio", prima che i talebani lo portassero a vivere nella madrasa  per farne uno di loro.
Babrak, il calligrafo che gli trasmette la sua arte  e il suo segreto.
Il vecchio Kharachi, che deambula con il busto appoggiato su un carretto da quando ha perso, per via di un razzo, entrambe le gambe. 
E poi una stuoia, un tendone e una teiera, il cui becco ricurvo riflesso sulla parete diventa "Asmar, il serpente delle notti di luna"; un pennello e delle lattine di colore che serviranno a colorare  i disegni sulle pareti dell'ospedale del medico italiano a Kabul, gli unici permessi dai talebani per i quali le "figure sono un'offesa a Dio" e i primi che Kualid abbia mai visto da quando è nato.
La guerra in Afghanistan che fa da sfondo alla vicenda è quella degli inizi del 2001 e ancora in corso. È la guerra nella quale alcuni Kualid sono nati e cresciuti, molti altri, invece, sono caduti assai spesso per colpa di quei "pappagalli verdi" che hanno tentato di far volare e che, invece, li hanno fatti saltare in aria, uccidendoli o mutilandoli.   Altri Kualid  hanno tentato o stanno ancora tentando di scampare alla guerra; sono profughi, migranti, ma soprattutto bambini: siriani, afghani, palestinesi, ma soprattutto bambini, ai quali chissà se sarà mai data la possibilità di chiudere gli occhi e sognare, come starà  facendo adesso Celeste, la mia bimba, nella beatitudine del sonno in cui di fianco a me giace e sorride...